martedì 8 dicembre 2009

Se ti chiami Anna la tua vita è già un po' segnata.



Mi sono operata 7 giorni fa e ancora il mio naso non è tornato in condizioni ottimali. Freno subito le malelingue "No, non mi sono rifatta il naso" e "No, non mi vedrete con un naso diverso dal mio naso di sempre" ma soprattutto "No, non volevo sfruttare questa operazione NECESSARIA per trasformare la mia faccia e sfondare in campo pubblicitario come nuova ragazza immagine del rossetto Pupa". Avrei potuto chiaramente dato il mio fisico longilineo e slanciato, ma anche no.

Vorrei dare spazio in queste righe allo sfogo di tutti quelli che nella vita hanno mai subito un'operazione al naso. A tutti quelli che hanno provato il dolore estremo di togliere un tampone dal naso. A tutti quelli che una volta si sono presi un pugno sul naso o lo hanno avuto dolorante e tappato per più di 5 giorni. Questo post è per voi e le vostre nari.

A livello personale l'ospedale rappresenta tutto quello che mi indispone maggiormente: la malattia, i bambini, i vecchi e le iterazioni che possono avvenire tra queste tre costanti. Ma soprattutto ciò che mi irrita è il dover forzatamente condividere informazioni strettamente personali con estranei, i quali, con la prerogativa di essere FONDAMENTALI per la tua salute si prendono la briga di esporre loro personali impressioni ed opinioni indossando ai piedi degli zoccoli.

L'operazione per me è un blank. Non ne ho ricordi. Da brava temeraria quale sono, di fronte alla possibilità di essere partecipe e attiva o totalmente addormentata mediante anestesia totale ho scelto la mascherina. Quattro boccate e chi si è visto si è visto.L'ultimo ricordo tangibile è quel burlone dell'anestesista che mi fa "Adesso respira qua, che poi ti addormentiamo".

La prima persona indisponente con cui ho avuto il piacere di confrontarmi dopo l'operazione è stata l'infermiera Elvira, la quale con il tatto di una massaia che sbatte la pasta per la pizza per compattarla al meglio, mi ha detto "Non ti bastavo tutti quegli orecchini in faccia, sei anche tutta disegnata", tutto questo durante la difficilissima operazione che mi vedeva protagonista nel passare da una barella al letto della mia camera con addosso soltanto un paio di mutande e un camice trasparente ed aperto sul davanti. Elvira, sul momento non ho avuto parole per ribattere al meglio, ma ora ci ho riflettuto e ti dico allegramente "Ma fottiti".

Il secondo è stato l'infermiere Franco che serafico alle 4 di notte ha acceso tutte le luci nella mia stanza e mi ha chiesto, dolcemente con il suo accento valdostano: "Dormi?". Anche per te Franco non ho avuto parole, ma le ho ora "Ma fottiti".

La terza persona di cui voglio parlare è la mia dottoressa, la quale, visitandomi non solo è riuscita con un semplice movimento della mano a toccare tutti i punti esterni più dolorosi, ma qualche giorno dopo, togliendomi il tampone, a farmi provare il dolore più tremendo ed acuto che possa esistere sulla faccia della terra. Di fronte al mio viso devastato dalle lacrime ha anche aggiunto "Forse dovevo bagnarlo un po'." Anche per te Silvia non ho avuto parole pronte e dirette, ma le ho ora "Ma fottiti".

In questo clima di artica freddezza dove Silvia regna dispotica ricordando nei gesti, nelle parole e nei baffi il Fuhrer, una sola ed unica persona ha saputo dimostrare la compassione umana di cui tanto parlano la domenica i parroci: l'infermiera Anna.

Anna è stata la prima a chiamarmi per nome, a chiedermi se desiderassi un antidolorifico, a portarmi la camomilla, a farmi le flebo, a dirmi quelle falsità che una persona nella mia condizione necessita di sentirsi dire "Tranquilla, domani starai molto meglio".

Una donna con il naso uguale a quello di Cristina Ricci in "Penelope", che si sente un wurstel infilato su per il cervello, con l'occhio destro quasi totalmente chiuso e lacrimante, la faccia gonfia, un pigiama con le renne comprato da sua madre, i capelli sporchi e l'energia vitale di un sasso ha bisogno di una parola di conforto.

Ci sono alcuni nomi che segnano perfettamente il destino di una persona. Nel momento in cui i tuoi genitori decidono di chiamarti Katrina sanno perfettamente dove andrete a parare te e le tue bocce, così come se ti chiamano Salvatore sanno che il peso del Mezzogiorno graverà sulle tue spalle. Ci sono i nomi inglesizzanti storpiati, quelli ripresi dalle marche di abbigliamento, quelli pretenziosi, quelli triti e ritriti (Matteo e Luca), quelli che vanno di moda (ad esempio Martina sul finire degli anni' 80 è diventato una vera e propria mania, ma devo ringraziare questa ondata e il fatto che mio padre si lasciasse facilmente influenzare se attualmente sulla mia carta di identità non c'è scritto Selvaggia o Donna) e quelli tramandati inspiegabilmente dai nonni. Ognuno poi ha una lista di nomi che, per un motivo o per un altro, odia. Io detesto tutti quelli da milanese borghesuccia arricchita tipo Ludovica (che tutti chiamano "la Ludo"), Beatrice (che diventa inevitabilmente "la Bea") e Caterina ("la Cate"), mentre adoro quelli vecchi un po' tradizionali come Teresa, Margherita, Primo, Marino. Ma chi mi conosce lo sa, sono vecchia dentro.

Prima di questi giorni di tremendo cordoglio non avevo mai riflettuto sui nomi in generale (esclusi i classici sfoghi giovanili su quanto si odi il proprio nome che ti fa sembrare una comunistella pacco con la kefia) ed in particolare sul nome Anna, ma ora posso affermare con assoluta certezza che Anna è un nome da maestra, da zia buona, da infermiera, da ragazzina tanto dolce quanto sfigata con i capelli rossi. Anna è un nome positivo. Facendo una carrellata rapida di tutte le Anne che conosco non ne trovo una che non mi vada a genio.

L' eccezione che conferma la regola potrebbe essere data dall'Anna di Battisti che proprio santa non era, ma anche lì, alla fine, il porco bastardo era lui.

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